Il danno erariale da incarichi extraistituzionali

Il danno erariale da incarichi extraistituzionali

di Giulia Stornaiuolo -
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Con la recentissima sentenza n. 101 del 2020 e l’ordinanza n. 4852 del 23 febbraio 2021 rispettivamente la Sezione giurisdizionale Veneto e le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno aggiunto un importante tassello a sostegno del “principio di esclusività del pubblico dipendente” ex art. 53 del d.lgs. 30 marzo n. 165 del 2001, con conseguente devoluzione delle controversie in esame alla giurisdizione del Giudice contabile. Le annotate pronunce, infatti, hanno per un verso statuito che la condotta omissiva del versamento del compenso derivante da incarichi extraistituzionali da parte del dipendente pubblico, ancorché non autorizzato in forma scritta dalla propria Amministrazione, costituisce un’ipotesi autonoma di “responsabilità amministrativa tipizzata”; per altro, che l’azione promossa dal Procuratore della Corte dei Conti nei confronti del dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53.

Più nello specifico, la questione sottoposta alla Sezione giurisdizionale Veneto concerne il danno erariale ascritto ad un medico, in conseguenza della prospettata violazione della normativa in materia di svolgimento di attività retribuita presso terzi, in assenza dell’autorizzazione prescritta dall’art. 53, co.7, d.lgs. n.165 del 2001. E’ stato in particolare rilevato l’inadempimento dell’obbligo di riversare alla propria Amministrazione di riferimento gli importi percepiti in base all’art. 53, co.7 bis, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165.

Innanzitutto, come evidenziato dalla Procura, l’esclusività e i limiti alle attività esterne rappresentano i principi alla base del rapporto di impiego con una Pubblica Amministrazione. Invero, il dipendente pubblico è tenuto riservare tutta la sua attività lavorativa all’amministrazione di appartenenza (ex art. 97 e 98 Cost), con espresso divieto, salve limitate tassative eccezioni, di svolgere attività imprenditoriali, commerciali o di lavoro autonomo, nonché di istaurare rapporti alle dipendenze di terzi o accettare incarichi in società ed enti che abbiano fini di lucro (cfr. l’art 53 del dlgs 30 marzo 2001, n. 165). Per quel che ci occupa, il convenuto si limitava a compilare un modulo prestampato di “dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà” con il quale dichiarava di svolgere attività professionali in qualità di “medico chirurgo/istruttore”, senza fare alcuna dichiarazione o menzione in ordine all’ulteriore compenso effettivamente percepito. Sul punto il Collegio ha ritenuto che tale dichiarazione non soltanto non poteva valutarsi alla stregua di una vera e propria richiesta di autorizzazione, ma denotava altresì l’intenzione di dissimulare (anziché dichiarare) la natura delle attività professionali effettivamente svolte dal libero professionista, oltre che l’importo dei compensi percepiti.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Collegio ha ritenuto di condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “l’autorizzazione, oltre a dovere essere formulata in forma scritta, deve essere presentata “prima dello svolgimento dell’attività e non ex post, (ex art. 53,comma 7 e ss. d.lgs 165/2001) poiché l’amministrazione di appartenenza deve essere messa in grado di valutare l’incarico sotto il profilo del potenziale conflitto di interessi e al fine di salvaguardare le energie lavorative del dipendente, indipendentemente dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia”(Corte conti sez. Appello n.617/2018). La ratio della norma, a parere del Collegio, risiede, nei principi desumibili dagli articoli 97 e 98 della Costituzione e quindi nella tutela dell’imparzialità, efficienza e buon andamento, oltre che nei doveri di esclusività del servizio prestato e pertanto non è configurabile, la buona fede o scusabilità della condotta del convenuto, ai fini del riconoscimento della colpa grave (e non dolo) e di una eventuale riduzione del danno al medesimo ascrivibile” (ex multis: sez. giur. Lombardia n. 214/2016 e n. 90/2017). Ad avviso del Collegio, infatti, la “condotta dolosa” è riscontrabile per un verso dall’omesso versamento delle somme dovute, nonostante le reiterate richieste, per l’altro può configurarsi quale evento prefigurato e voluto, da parte del convenuto, stante la piena consapevolezza dei doveri di riversamento e delle conseguenze dannose che da tale inadempimento ne derivano. Come precisato, la qualifica di medico di secondo livello impegnava il convenuto alla più scrupolosa conoscenza e alla massima osservanza della normativa, considerato che la fattispecie di “responsabilità erariale” tipizzata dalla legge è testualmente e chiaramente riferita alla “omissione del versamento del compenso”.

In questo contesto, infine, si inserisce il recentissimo principio di diritto pronunciato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con ordinanza 23 febbraio 2021, relativamente ad un caso analogo, secondo cui “l'azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53, norma che non ha portata innovativa; si verte, infatti, in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico”.